Accumulatori seriali
Chi
è immune da questa patologia scagli la prima pietra.
La
sottoscritta meglio se la tagli addirittura, la mano. Nel mio guardaroba, sotto una fallace apparenza ordinata, si
nascondono dei veri orrori. Possiedo alcuni sacchetti di collant tra i quali si
cela quello con il quale mi sono sposata. Nel lontano ‘95. Il motivo per il quale
io non getti via un paio di residuati bellici color gesso, che non rimetterò
nemmeno a novant’anni, rimane un mistero anche per me. No, non li considero un
ricordo: non guardo mai nemmeno il vestito con il quale mi sono sposata. E
quello è un ricordo (bello) davvero.
La
tesaurizzazione insensata si estende a quasi tutti i capi di abbigliamento: una
congerie di stracci da due soldi, acquistati al mercato o nelle grandi catene
low cost, nati per essere vissuti una sola stagione e poi buttati. Ebbene, con
me vivono tre vite: quella addosso a me (un tre anni circa. Li archivio solo
quando sono talmente fuori moda che non li portano più nemmeno le badanti).
Segue il periodo di sopravvivenza come “vestiti da casa”, il che vi dà la
misura di quanto stracciona io possa apparire a vettori e postini, quando
vengono a suonare alla mia porta. Roba da vergognarsi… Ma io sono senza
vergogna. Lo ammetto.
Difatti,
una volta esaurita anche questa fase, si passa a quella di “abito da camper”. E
poi mi sorprendo che mi prendano per una Rom, quando scendo dal nostro Laika.
Gli
abiti “buoni”, quelli acquistati in vista di qualche occasione importante,
rimangono nella mia vita per ere geologiche. Essendo modelli classici,
riciclabili senza difficoltà grazie ad astuti abbinamenti con accessori
differenti, non me la sento proprio di eliminarli. Nemmeno quando aumento di
peso e non mi vanno più su del ginocchio: nulla, non mi arrendo nemmeno lì.
Piuttosto mi metto a dieta, aumento la già abbondante attività fisica cui mi
sottopongo, nel tentativo di rientrare nelle mie antiche misure. E tante volte
ci riesco, il che mi incentiva a perseverare in un atteggiamento palesemente insensato.
Onde
evitare di morire sepolta da ruderi tessili, ho escogitato un modo quasi
indolore per liberarmi del vecchiume: a fine stagione, raccolgo tutto ciò che
non ho indossato per tre anni di seguito. Lo riunisco in un contenitore,
posteggiandolo nella zona “fuori stagione”.
Quando
cambia la stagione, prima rimetto in attività tutto il resto: sempre mezzi
stracci, ma almeno mettibili… Mi compro quelle due o tre cose nuove
indispensabili per poter dare almeno il giro alle lavatrici e così l’armadio è
a posto. Poi metto mano al cartone degli orrori. Senza aprirlo: tanto lo so
cosa contiene. E ho avuto il tempo di smaltire la decisione di disfarmi di quel
ciarpame senza sensi di colpa. Lo porto
direttamente al contenitore della Caritas e lì lo svuoto. Sperimentando, tra l’altro,
un senso di liberazione e leggerezza: chissà perché devo fare tanta fatica per
arrivarci? Boh!
Per
mia fortuna, questa tendenza all’accumulo la esprimo solo nell’ambito appena
descritto: per il resto, sono una tattica dell’archiviazione, dello smaltimento
veloce di posta, pattume riciclabile, materiale inutilizzabile. Difficile che
troviate mucchi di arretrati, tra le mie cose. Persino il bucato da lavare, lo
faccio fuori alla velocità del fulmine. Presto e bene è il mio motto: anche
perché se dovessi vivere all’inseguimento delle scadenze sarei davvero morta.
Troppo da fare e da pensare per Mpc, a Casa per Caso.
I
miei familiari maschi, viceversa, oltre alla tesaurizzazione, hanno il vizio
del disordine. Capaci di sottoporsi a estenuanti sessioni di allenamento fisico
per mantenere (o riacquistare) la forma fisica, hanno il fondoschiena pesante
quando si tratta di alzarsi per andare a gettare nell’apposito contenitore il
quotidiano appena letto. Molto meglio appoggiarlo sul primo piano a portata di
braccio. Ecco così che trovo giornali risalenti ad anni prima, mescolati a
lavori scientifici, riviste di camper e informatica, pile di carte mischiate
senza alcun costrutto installate su ogni seggiola nello studio del marito. Il
quale sostiene che nel suo disordine trova tutto. Il che non spiega come mai
stia sempre a chiedere a me dove ho nascosto oggetti e documenti di cui ignoro
persino l’esistenza.
Sulle
catastrofiche conseguenze dell’accumulite nelle camere dei miei rampolli già vi
ho raccontato in passato.
Mi
resta da spiegarvi come io tenga sotto controllo la marea montante di casino
che questi mi creerebbero in casa, se io non fossi un ufficiale della Gestapo.
I
tre sono strettamente confinati in un loro spazio predefinito: uno spazio polveroso,
incasinato e persino maleodorante, talvolta. Le occasioni nelle quali mi
presento armata di materiale per pulire e li informo che, o puliscono un po’, o
ci penso io. E se ci penso io poi dopo non trovano più nulla sul serio.
Sono
costretta a una sorveglianza occhiuta e severissima: al primo accenno di
sconfinamento, passo all’eliminazione fisica dell’oggetto incriminato. Con
minaccia di far fare la stessa fine al suo proprietario. Non appena allento l’attenzione, quelli mi
riducono l’angolo della casa che mi è sfuggito a una discarica. Il garage,
dotato (da me) di scaffali, contenitori e finanche di un tavolo da lavoro, imitava
alla perfezione una città bombardata. Per arrivare ai detersivi ero costretta a
scavalcare mucchi di macerie, rischiando ogni volta una distorsione alle
caviglie. Un giorno sono stata presa da un accesso di furore sacro e ci ho
lavorato cinque ore. Solo con i cavi elettrici accumulati negli anni ho riempito
un cartone di un metro per sessanta: l’ho etichettato “cavi dei pazzi” ed ora
sta lì, da anni, sigillato a prender polvere. Tanto per dire l’utilità dei
tesori che tanto difendono dal mio desiderio di eliminazione.
L’unico
modo di guarire per l’informatico è stato andare a vivere in un
miniappartamento. Essendo che suo padre non lo posso scacciare di casa, mi sa che
i manuali d’informatica anni Ottanta faranno parte della mia esistenza fino a
che morte non ci separi.
Anche
queste sono le gioie del matrimonio. E a queste non c’è rimedio, purtroppo.
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