Che caldo
Vabbè, sarò banale. Il fatto è che vivere nella conca padana in questo
periodo è destabilizzante.
Ieri ho fatto da guida, al mercatino rionale, a un paio di
parenti siciliane, scaglionate in momenti progressivamente più avanzati della
giornata.
Quella delle otto del mattino è rientrata due ore dopo, boccheggiante, ma
sostanzialmente in buona salute. Quella avventuratasi all’esterno alle
undici e mezzo è rientrata stravolta. Nonostante abbia svariati anni meno di
me.
Entrambe hanno rilevato, a loro spese, come i capelli possano subire una
mutazione genetica, da queste parti, al semplice contatto con l’aria. E’
talmente satura di umidità da rendere faticosa persino la respirazione. Pur
vivendo poco sopra alla latitudine di Tunisi, le nostre hanno lamentato, una volta di più,
di non possedere i mezzi per sopportare le calure padane.
Quanto a me, a mezzogiorno ormai sembravo il mostro della palude, e mi
sentivo ben disposta verso il mondo quanto lui.
Una volta rientrata nella Stamberga, mi sono goduta appieno i piaceri di
una vita in bottiglia. Finestre tappate, condizionatori in funzione,
compartimenti stagni attivati. Le porte sono tenute chiuse, per garantire il mantenimento della temperatura voluta nelle varie zone della casa, evitando inutili dispersioni.
Il problema è che le desperate housewives devono passare,
obbligatoriamente, da un comparto all’altro.
Ecco quindi la nostra affrontare i trentacinque della lavanderia, per
stendere i panni appena estratti dalla lavatrice; passare poi ai quarantatrè
della terrazza, in pieno sole, per ritirare dallo stenditoio quelli ormai
asciutti. Il tutto transitando più volte sotto lo split dell’ingresso del piano
superiore: split che, per riuscire a rinfrescare le stanze dei ragazzi, è puntato
a temperature artiche. Va da sé che, per quanto una cerchi di sgabbiare
velocemente, il rischio di irrigidirsi sotto il soffio gelido, stile burattino,
è consistente.
La nostra colf ci ha salutato per un mese, ieri mattina; ieri pomeriggio
abbiamo avuto la gradita visita dell’installatore, il quale ci ha consegnato la
lavastoviglie nuova. Peccato quella vecchia abbia chiuso la sua esistenza
lordando il pavimento della cucina, mentre veniva condotta alla discarica:
questo, unito alle acque reflue esondanti dall’iceberg formatosi nel freezer,
mi ha garantito un tranquillo pomeriggio di pulizie matte e disperatissime.
A fine giornata, ero da buttare, e mi sentivo molto depressa. Uno stato d’animo
mantenuto sino al rientro di Jurassico: guardarlo in faccia e rendermi conto che
io ero un fiore è stato tutto uno.
Il poveretto era strizzato da un numero di ore – e di urgenze – esagerato.
Si è cambiato, per poi sedersi per terra in salotto, a fare un po’ di stretching:
dopo cinque minuti, uno strano rumore ha attirato la mia attenzione. Mi sono diretta
in sala, rinvenendo il marito riverso sul tappeto, che russava rumorosamente. Povero
amore mio: la stanchezza me l’aveva letteralmente raso al suolo.
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