Rinnovo della patente
Su gentile richiesta dell’interessato, accompagno il marito a rinnovare la patente. Mi trovo così rinchiusa in una stanza disadorna, in assenza di qualsiasi mezzo di sussistenza – giornali, riviste, un misero libro in edizione economica… – con una buona mezz’ora di attesa davanti. Non rimanendomi molto altro da fare, mi dedico alle osservazioni antropologiche.
Uno dopo l’altro, veniamo ammassati tutti nella stanza dove, evidentemente, si tengono le lezioni di teoria: i cartelloni appesi alle pareti sono sempre gli stessi da trent’anni, credo, come anche le sedie e i banchetti. Unica concessione alla modernità, una fila di monitor, dove scorrono i quiz dell’esame. Una serie di discenti è inchiodata alle tastiere, mouse alla mano, in uno stato di preoccupante immobilità. Non muovono muscolo: si concentrano sull’immagine restituita dallo schermo, che fissano con aria aggrondata, senza osare il minimo click. Ogni tanto, si scambiano qualche battuta, con aria preoccupata: mi auguro solo sia gente alla prima esercitazione. Perché se sono prossimi al conseguimento dell’agognato permesso, e la loro espressione è vacua in quel modo, mi spiego un milione di cose che vedo succedere sulle strade italiane.
Il gregge in attesa della visita medica si va ingrossando di minuto in minuto. Mi colpisce un esemplare umano, di genere maschile, piuttosto giovane, che indossa un paio di pinocchietti Emporio Armani, griffati con un logo grosso così, completati da un paio d’infradito con qualche improbabile nota di fucsia. E’ palese che si sente un gran figo, combinato così.
Poiché normalmente non mi accorgo nemmeno se la gente gira nuda o vestita, questo osservatorio sui trend del momento rappresenta una novità interessante, per la sottoscritta.
Un tre file più avanti di noi, siede un tizio dall’aria inquietante: sulla trentina, canotta da culturista, capello a cespuglio, barbetta caprina e catena d’oro al collo. Non vedo tatuaggi, da qui, ma potrei scommettere che da qualche parte ci sono: così come mi potrei sbilanciare nell’attribuirgli probabili simpatie nazi. Entrano poi un paio di giovanotti sulla ventina, stranieri, quotabili come albanesi, capello gelificato in stile cestino di chiodi, calzoni in fase calante, sdruciti ad arte, cinturoni grossi così, cellulari esplosivi: dopo meno di un minuto dal loro ingresso, un chiasso infernale si sviluppa dalla tasca di uno dei due, che sparisce all’istante, impegnato in una fitta conversazione in un idioma sconosciuto.
In una sinfonia alternativa, si anima anche il telefono del signore di fronte a mio marito: costui ha scelto un brano di musica classica. La cosa non sorprende: è un signore di una certa età, con i capelli addomesticati in un accurato riporto, l’aria cortese e un impermeabile addosso, infilato non appena si è accorto che i due ventilatori, pendenti dal soffitto, non erano completamente immobili. In effetti, con trenta gradi, l’umidità in salita costante, per la presenza di un numero sempre crescente di esseri umani – respiranti e traspiranti – il rischio di prendersi una broncopolmonite da freddo è consistente. Confesso di sentirmi male dal caldo solo a guardarlo.
Nel frattempo, il medico sputa patentati al ritmo di uno ogni tre minuti: fino al momento in cui, per ignote ragioni, la macchina s’inceppa. E un signore rimane chiuso lì dentro per un tempo apparentemente infinito. La temperatura degli astanti ha un picco improvviso: date le circostanze, e le condizioni ambientali, il nervosismo è in agguato. Una signora, vestita in modo pretenzioso, parte con una conversazione a tema con le tre ragazze che le stanno accanto: tutte e quattro piuttosto in carne, boccheggiano dal caldo, giustamente preoccupandosi che l’attesa possa protrarsi oltre un tempo fisicamente accettabile.
La scena mi riporta alla mente i dati nazionali sull’obesità, e mi sorprendo a pensare: “Ai miei tempi non era così…” ragionando come mia nonna. Accidenti, sto proprio invecchiando.
Il netto sovrappeso non impedisce tuttavia a nessuna di loro di osare magliette adesive, con drappeggi sparsi ad arte, che diventano esplosivi a causa dei sottostanti rotolini, e pantaloni al ginocchio che scoprono polpacci bitorzoluti.
L’unica con un abbigliamento fin troppo castigato, con tanto di occhiale severo, alla maestra cattiva, è un fiore di ragazza, di corporatura elegante e con un viso dai lineamenti cesellati. Chissà perché si veste come una suora, questa, che potrebbe permettersi ben altro…
Finalmente, chiamano mio marito, che se la cava in un momento: uscendo, gli casca l’occhio sul mio, di abbigliamento. E si accorge, dopo ore, che sono insolitamente elegante: in effetti, volevo fargli una sorpresa, oggi. Ma l’arrivo del giardiniere aveva totalmente distratto la sua attenzione, con mia grande delusione. Ora, riflettendo sul fatto che sono di ritorno dalla piscina, mi interroga: “Ma tu da dove vieni, vestita così? Di solito sei sportiva, quando vai a ginnastica..”
“Geloso, eh?” gli rispondo “Vorrei dirti che mi sono vista con qualcuno: in realtà il qualcuno che volevo colpire sei tu. Solo che mi hai ignorato tutto il giorno!” m’imbroncio.
Si mette a ridere e mi prende per mano, riconducendomi a casa, dove – diolobenedica – il figlio maggiore ha già cucinato i polli alla griglia.
Come donna fatale, è palese che non convinco: potrei darmi al giardinaggio, però. Magari quello funziona di più, per colpire la fantasia di mio marito.
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