Cresimato
Giornata campale.
Sveglia di buon ora, mentre la banda Bassotti non dà segno di sé, sepolta sotto le coltri, ronzo qui e là, impegnata a rendere presentabile la Stamberga, mettere sul fuoco le patate con le cipolle e in cantiere la torta delle rose. Il dolce ufficiale delle grandi – e piccole – occasioni: la Famiglia non vuole nulla di diverso.
Jurassico non è meno alacre: s’incarica della pulizia a fondo dell’Enterprise, il nostro instancabile barbecue, smontandolo da cima a fondo. Trafficandoci sopra per oltre un’ora, restituisce all’originale splendore persino i bruciatori, credo. Essendo di passaggio nei paraggi, l’occasione gli è gradita per aggiustare una sdraio da giardino, rotta dai ragazzi secoli fa, e sistemare un paio di irrigatori nel prato. Quell’uomo è un artigiano perfetto.
Ho di recente scoperto che, da ragazzo, ha fatto persino il meccanico. Presso un’officina che preparava le auto per i rally, tra l’altro: cose nella norma, mio marito, mai. Notizia questa che spiega come costui possieda un orecchio, per i rumorini sospetti del motore, che fa concorrenza a quello di un concertista.
Col passare delle ore, le belve riprendono vita una a una: quando l’uomo del giorno compare all’orizzonte, lo acciuffo, costringendolo a una tosatura coatta. Dal barbiere quello non ci va nemmeno morto: così, devo minacciarlo di morte, per riuscire a regolargli la zazzera. Falciato, lavato, vestito e calzato, ha proprio l’aria di un cresimando vero.
Per l’ora di pranzo, tutto è a posto, me compresa: grazie al decisivo intervento della Miss, impagabile collaboratrice nei momenti importanti, ho potuto dedicarmi alle complicate operazioni di restauro, indispensabili per fare di me una padrona di casa credibile. Dopo il raid da puliziotta e l’ultimo contatto con un ciclopico soffritto, avevo l’aspetto – e il profumo – di uno zombi. Non sarebbe bastato preparami: mi dovevo proprio rifondare.
All’una, arrivano nonno marescià e consorte, in contemporanea con nonna e zio, molto emozionato per il ruolo di padrino assegnatogli dal gaglioffo. Zia e cuginetta arrivano dopo un po’, in bici, annunciando che lo zio – colmo della sfortuna – sta arginando un allagamento a casa dei suoi. Lo rivedremo dopo quasi due ore, pover’uomo.
Il menù è apprezzato da tutti, come anche l'atmosfera rilassata che caratterizza le nostre riunioni di famiglia: verso le tre, i nonni vanno a riposarsi un po’, la zia, madrina a sua volta, raggiunge la sua figlioccia, mentre Jurassico, nonna e io ci concediamo una lunga passeggiata di smaltimento libagioni.
Il pater familias sottolinea la solennità della giornata fumando la sua pipa: oggetto che utilizza solo nei momenti speciali.
Alle cinque e mezzo, inizia la cerimonia. Essendo il quarto che giunge al traguardo cresimale, affronto l’evento con scanzonata disinvoltura: fino al momento in cui lo vedo, seduto composto accanto allo zio, che ascolta silenzioso le bellissime parole del vicario. L’hanno mandato bravo, mannaggia. Che sia per quello che mi sto commuovendo?
Quando poi il giovane arriva all’altare, e io mi ritrovo lì a fissarlo, come fosse l’unico ragazzino al mondo – in realtà, sono una sessantina: cuore di mamma e matematica non vanno d’accordo – circondata dai suoi tre bellissimi fratelli, che lo fissano seri seri… mi squaglio. Sono costretta a uno sforzo immane per non lasciar trasparire l’ondata emozionale di cui sono preda: non è proprio il caso che mi copra di ridicolo. Non è un matrimonio. Il problema è che sono una donna debole, vittima dell'emotività.
Una volta dominate le palpitazioni, mi appoggio all’amato bene, bisbigliandogli sottovoce: “Che bella famiglia abbiamo, amore…”
“Mhm. C’è da far ‘na guerra ogni giorno…” mi risponde, fingendosi accigliato.
Lo fisso, col sorriso negli occhi, ribadendo: “Già. Ma è una bellissima famiglia lo stesso!”
Sorride anche lui, e mi risponde, circondandomi con un braccio: “Sì. Bellissima.”
Per fortuna, la lunghezza della funzione, unita al fatto che siamo rimasti sempre in piedi, smorza i miei entusiasmi, restituendomi a una condizione di normalità.
Rientrando alla base, Poppi, il gatto nero, ci offre il fuoriprogramma della giornata.
Giunti quasi a destinazione, osserviamo il felino acquattato sul bordo del corso d’acqua che scorre nei pressi di casa: è immobile, le zampe raccolte sotto il corpo, l’occhio spalancato in un’espressione attenta. Non muove un muscolo. Cosa starà guardando?
Ci avviciniamo quanto basta, e comprendiamo l’arcano. Qualcuno ha gettato un cumulo di pane lungo l’argine: una colonia di sorci sta banchettando sotto gli occhi del nostro micio. Una pantegana arriva a rosicchiare il suo pasto a cinque centimetri dalle vibrisse dell’animale, che non osa un movimento: spaventato dalla superiorità numerica della popolazione murina? Chissà. Fatto sta che il micio è paralizzato, mentre il gaglioffo va nel panico.
“Ma avete visto che schifo? Io non lo tocco più, quel gatto! Chissà che malattie mi può portare, frequentando ambienti simili!”
“E che è, una novità, che quello si nutre di sorci? Il mese scorso ne ha portato uno anche a casa… La mamma era disperata!” ribatte papà.
“Vabbè. Ma quelli erano davvero troppi. La prossima volta che lo accarezzo, dopo mi disinfetto le mani. Non si sa mai: lo sapete che sono sempre stato un igienista!”
Bene. Ho un gatto con la fobia dei topi e un figlio con la fobia dei gatti.
Forse è il caso di contattare R., l’amico strizzacervelli. Magari un consiglio me lo dà.
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